Tra i fitti incontri della Digital Week milanese spicca la lezione tenuta dal professor Carlo Sini, svoltasi venerdì 15 nei locali della Triennale di Milano, dal titolo Uomo_macchina_automa. Il tema proposto riprende non casualmente uno dei sui lavori dedicati al rapporto tra tecnologia e umanità, L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri). Il volume, nonostante sia ormai di qualche anno fa, risulta attuale perché gli sviluppi più recenti dell’automazione e dell’intelligenza artificiale ci interrogano con sempre maggiore urgenza sul nostro vivere comune.
L’uomo come automa culturale
La tesi principale consiste nel concepire l’essere umano come automa culturale, e la cultura come tecnologia che attraverso le differenti scritture date storicamente “ominizza” l’essere umano. A questo proposito Sini parla di “strumenti esosomatici”, il primo dei quali è la parola che nomina e descrive e che permette all’essere umano di costruirsi una mappa di quello che fa.
L’essere umano è dunque il prodotto del linguaggio più che il produttore del linguaggio. L’essere umano mostra di pensare da sé ma non pensa da sé, bensì grazie alle possibilità intrinseche alla quantità sterminata degli attrezzi linguistici di cui si è dotato.
L’uomo è l’automa perché la sua azione è orientata alla cultura. Ossia, è la cultura che parla e muove l’uomo.
Uno dei punti fondamentali è comprendere cosa vuol dire automa. Per il filosofo è ciò che si muove o pensa da sé. Nell’uso corrente e dimenticando il suo significato proprio si applica a congegni e produzioni macchiniche che simulano di muoversi da sé. Se suscita inquietudine è perché simula l’uomo. Da qui gli equivoci e le superstizioni relativamente all’automazione.
Dunque l’essere umano mostra di muoversi da sé ma in realtà è agito dalla cultura. Questo ovviamente non vuol dire che l’uomo è assimilabile a una macchina.
Strumenti esosomatici
Ma cosa vuol dire che la parola è uno strumento esosomatico e quando uno strumento è tale? Un esempio che Sini ama molto è quello dello scimpanzé e del pezzo di legno. Secondo il professore L’animale che usa un bastone, non sta usando uno strumento, perché qui il bastone è sì agito ma non saputo. Prova ne sarebbe che quando finisce di usarlo e di svolgere la sua funzione, lo scimpanzé abbandonerebbe il bastone. In questa prospettiva, uno strumento viene considerato come tale quando chi lo usa si riconosce tramite esso. Per questo Sini parla di strumento esosomatico, perché l’esteriorizzazione del corpo, che si cosalizza per esercitarsi nelle sue azioni vitali, si trasferisce in un oggetto materiale. Qaulcosa parte dal corpo, si proietta fuori e diventa un fenomeno esosomatico, una specie di specchio che permette a chi usa lo strumento di riconoscere la propria azione.
In questo senso si può parlare di cultura come di una macchina esosomatica composta dall’alfabeto, dalla scrittura e dall’insieme delle creazioni create dall’essere umano nella sua storia, comprese naturalmente le diverse macchine comunemente intese.
Singolarità e differenza con le macchine
Abbiamo quindi compreso come, nella prospettiva del filosofo, l’essere umano si possa concepire come automa che si forma attraverso la cultura e che, allo stato attuale di avanzamento tecnologico, è probabile che sarà presto in grado di costruire delle macchine in grado di pensare. Ma attenzione, solo se per pensare intendiamo calcolare e dedurre, analizzare, suddividere ogni cosa in elementi discreti, avviare algoritmi e procedure in sé finite. Quello che una macchina non farà mai è vivere, perché non è in grado di ricordare e sbagliare, non può dimenticare per ricordare (e quando e se lo farà non sarà più una macchina).
Qualche ora prima dell’incontro abbiamo approfittato dell’occasione per fare una breve domanda al filosofo.
Quando si parla di tecnica anche i pensatori più raffinati tendono a porre sullo stesso piano il martello, la tecnica dello scultore, la fabbrica, l’automazione e la tecnologia informatica. Ha ancora senso parlare di tecnica come fosse un’unica cosa? O forse non è il caso di parlare di tecniche (al plurale) e operare distinzioni più accurate?
Le distinzioni sono una gran bella cosa ma a volte non servono molto perché si rivelano essere distinzioni di un sottofondo unitario, quindi può essere più utile cercare di andare più in profondità. D’altro canto il problema della filosofia non è quello di analizzare le distinzioni, per quello ci sono i saperi situati dei tecnici e degli esperti. Ciò che dobbiamo chiederci è cosa sia la tecnica. Nella mia ottica è fondamentale lo strumento esosomatico. Cosa succede quando un ominide si serve di uno strumento? Quali conseguenza ha avuto questo gesto nella storia dell’essere umano?.
Alcuni filosofi – penso ad Heidegger ne La questione della tecnica – distinguono tra diversi impieghi della tecnica. Celebre, per esempio, la differenza che pone tra un mulino e una diga, in quanto a impatto e sfruttamento del mondo della natura. Altri si sono rivolti all’analisi della tecnica industriale tipica del capitalismo avanzato, penso soprattutto ai francofortesi. Questo modo di avvicinarsi al problema della tecnica se da un lato aiuta a fare chiarezza dall’altro porta a pensare alla tecnica come a un destino ineluttabile. È così? La tecnica è un destino? E cosa vuol dire?
La risposta è complicata. È un destino sì ma non sono d’accordo con Heidegger, l’uomo e la tecnica non sono due cose distinte che si dovrebbero armonizzare una volta risolto il problema ontologico.
La mia tesi è questa: non esiste l’essere umano se non in quanto capace di usare strumenti, linguaggio. Non siamo niente senza la tecnica.
Pensare alla tecnica come a un destino ineluttabile non è fuorviante? Da un lato ci appiattisce nel subire qualunque tecnica (sotto l’ideologia del progresso) e dall’altro lato suggerisce che la tecnica sia qualcosa di neutrale, a prescindere da chi la crea, in quali condizioni, con quali obiettivi etc.
Pensatori come Günther Anders o Jacques Ellul, per quanto acuti osservatori e critici lungimiranti della tecnica, non sembrano però offrire molte alternative, mentre un autore come Ivan Illich arriva a parlare di strumenti “conviviali” distinguendoli da quelli “non conviviali”, cito: “Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso. Lo strumento conviviale è quello che mi lascia il più ampio spazio e il maggior potere di modificare il mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da me che determina la mia domanda, restringe il mio margine di controllo e governa il mio senso della vita.”
Sono un ammiratore di Ivan Illich. Quello che dobbiamo capire è che c’è un progresso indiscutibile delle conoscenze e degli strumenti. Lo sviluppo delle macchine funziona in questo modo, nuove macchine implicano e “chiamano” le macchine di domani, le rendono possibili. Viviamo in una complessità crescente. Ci sono possibilità e limiti.
Penso agli strumenti come a qualcosa che opera una mediazione tra l’essere umano e il mondo, che viene dal mondo ma è staccato dal mondo. Penso alla parola e alla scrittura come una tecnologia creata dall’essere umano e che ritorna all’essere umano, formandolo.
Quello che Illich chiama conviviale per me richiama il discorso, lo strumento linguistico. E quindi la comunità del discorso. Il linguaggio non dice gli oggetti, “dice” la comunità. La natura dello strumento discorsivo come lo strumento esosomatico permette alla comunità di articolare un discorso politico che le permette di affrancarsi dalla logica del capitale. Dobbiamo stabilire politicamente il senso dell’economia.
Philip K. Dick, il noto romanziere di fantascienza, in un suo scritto dà vita a un paradosso. Immagina una scena in cui, in un futuro non troppo lontano, un automa e un essere umano si affrontano e si sparano a vicenda: solo che dal corpo dell’uomo si alza un filo di fumo, perché il proiettile ha colpito una sua parte meccanica, e dall’automa esce un rivolo di sangue, perché i robot si sono evoluti per somigliarci sempre di più. Questo il paradosso. Da qui la domanda di Dick: cosa ci distingue dall’automa? cosa ci rende umani? Per lo scrittore la risposta andava cercata nella capacità di provare empatia. Qualunque essere sia in grado di provare empatia è in qualche modo “umano”. Qual è la sua posizione a riguardo?
Quello che distingue un automa da un essere umano è la memoria.
Possiamo trasferirla, lo facciamo continuamente con la scrittura prima ancora che con le tecnologie contemporanee. Ma la trascrizione per quanto accurata è sempre altro rispetto all’esperienza concreta e alla sua memoria, perché l’essere umano è il depositario e il corpo vivente di tutta la catena biologica che ci ha condotto qui. Questo è per me la memoria. C’è bisogno di tutta la memoria dell’intelligenza umana per riprodurre un automa identico a un essere umano, ma la memoria è un fatto biogico e culturale. Ha a che fare con la distanza del sapere dalla vita.