Fondazione Feltrinelli è sempre più attiva. Negli ultimi sei mesi sta organizzado moltissimi incontri, seminari e conferenze su vari temi, in particolare sulla partecipazione democratica e i media. Nella cornice di uno di questi cicli “WE the power, the media, the people” ha invitato il sociologo Evgenij Morozov. Chiamo quindi in Fondazione per fissare un appuntamento. Mi fanno sapere che è in volo da Barcellona e avrà pochissimo tempo a disposizione, ma si può fare. Avrò a disposizione 15 minuti prima della lectio magistralis che terrà nei locali della Fondazione milanese.
Piove da ore ed è già buio quando arrivo all’appuntamento. Mi accompagnano in uno stanzino raccolto dove il sociologo bielorusso ha appena finito di rispondere alle domande di un altro giornalista. Appare un po’ stanco e forse un po’ teso per l’intervento che dovrà fare di lì a mezz’ora, ma è disponibile e mi sorride gentilmente quando mi presento e cominciamo a chiacchierare.
Giusto per scaldarci cominciamo a parlare di Net Neutrality, ossia il principio per cui tutti i dati devono essere trattati nello stesso modo da parte dei provider che concedono banda ai produttori di contenuti. Oggi, siamo abituati alla “neutralità della rete” perché nell’internet che usiamo quotidianamente i file, le informazioni, i video, etc sono trattati allo stesso modo: a tutti è garantita parità di velocità, al piccolo blog come a Youtube. Ma da quando la Federal Communications Commission (Fcc), l’authority americana per le telecomunicazioni, si è pronunciata – il 14 dicembre scorso – a favore dell’abrogazione della legge del 2015 che sanciva appunto la neutralità della rete, si è scatenato un ampio dibattito intorno a questi temi. Se questa legge dovesse effettivamente essere cancellata, potrebbero cambiare molte cose circa l’accesso a internet negli USA, con probabili ripercussioni anche altrove. Mi incuriosisce sapere cosa ne pensa Morozov e glielo domando:
“Negli USA c’è stato uno scontro di interessi di due fazioni delle tech industries, da una parte le compagnie di telecomunicazione che vorrebbero recuperare il terreno perduto nei confronti dei principali produttori di contenuti (come Google, Facebook, Netflix, Amazon) perché pensano che ci siano attualmente troppe regolamentazioni che glielo impediscono. Una classica impostazione capitalista del problema che vorrebbe un mercato il più fluido possibile. E dall’altra, appunto i “giganti della Silicon Valley”, che si fanno difensori dell’internet libero. Noi sappiamo che le cose non stanno proprio così perché in realtà Google e Facebook fanno quello che vogliono con i nostri dati e cambiano continuamente gli algoritmi in base ai quali leggiamo le informazioni. Quindi posiamo dire che il modello di internet che loro ci chiamano a difendere non è poi così “libero”, in effetti.
Credo anche che il discorso sia solo all’inizio e non verta tanto sulla neutralità quanto sui modi in cui internet è economicamente interessante”.
Questa situazione può far emergere le contraddizioni interne alla rete. C’è chi pensa che se non ci fosse più la net neutrality i veri padroni della rete non potrebbero più nascondersi…
“Non saprei, perché Google investe moltissimi soldi nella costruzione di proprie infrastrutture, come i cavi che attraversano l’oceano atlantico, quindi potrebbero essere autonomi. Ma sai, è una situazione davvero contradditoria. Ai normali utenti che vogliono minimizzare le spese e vogliono internet senza limiti, quelli della Telco non hanno molto da dire, non hanno argomenti. Quindi, se pensi a cosa vogliono i normali utenti la net neutrality è ok, ma se pensi ai diritti dei cittadini un po’ meno, perché Google e Facebook stanno soprattutto difendendo i loro interessi…”
Si ferma e ridendo mi dice che potrebbe andare avanti ancora a lungo a parlarmi di questo. Allora gli chiedo che idea si è fatto, partendo dagli studi che ha condotto, su un’altra questione che sta tenendo banco ultimamente, quella sulle monete digitali (cryptocurrency), sui bitcoin e i possibili usi della tecnologia che ne sta alla base, la blochcahain.
“Bé, per quanto riguarda i bitcoin, più che una moneta si sono trasformati rapidamente in una possibilità di investimento, un asset finanziario. Come chi investe in immobili compra una casa e la lascia vuota, così quelli che investono in bitcoin li comprano e li rivendono ma non li usano. Quindi i bitcoin sono stati immaginati e creati per essere una moneta ma questo non sta succedendo molto perché al momento funzionano di più come forma di investimento.
Questo non vuol dire che tutti i tipi di cryptocurrency siano destinati a fallire, ci sono sperimentazioni interessanti che di fatto creano piccole economie indipendenti dai governi statali e dei loro sistemi monetari. Mi sembra una buona cosa. Non sono particolarmente scioccato da queste innovazioni e dai loro effetti, la loro rilevanza è soprattutto economica più che tecnologica. Soprattutto se legata a comunità locali può avere effetti positivi. Dipende da come sono progettate e da come vengono usate. La tecnologia che ci sta sotto, la blochchain, permette soluzioni molto diverse tra loro. È un po’ come con lo smartphone, non tutte le app che puoi trovare migliorano la tua vita”.
Migliorare la vita degli utenti è il grande ritornello dei giganti della Silicon Valley ma sappiamo che non sempre corrisponde al vero. Nei tuoi libri hai descritto molto bene la situazione: privacy, bolla dei filtri, funzionamento degli algoritmi, uso dei dati e dei metadati da parte di Google, Facebook, Amazon, l’influenza sulle emozioni e sui pensieri che possono avere i social network. Quali azioni si possono intraprendere per tutelarsi? Cosa possono fare gli utenti e cosa può fare una “buona politica”, attenta agli interessi dei cittadini, a livello statale o europeo?
“Per quanto riguarda i singoli cittadini, ci sono quelli che vengono dagli ambienti dell’attivismo che parlano molto di autodifesa digitale, come il gruppo Ippolita. Ma non credo che sia una buona soluzione per i normali cittadini. Voglio dire, se sei un attivista, fai azioni politiche o cose così può andare bene ma non credo che vada bene per i comuni utenti”.
Mi sembra che non abbia molto presente le posizioni di Ippolita ma lo lascio continuare. “La mia paura è che l’autodifesa non sia la soluzione. Per esempio, la privacy tra non molto diventerà un servizio che si dovrà pagare per avere. Se le cose vanno in questa direzione l’autodifesa non è un’opzione praticabile per i cittadini. Semplicemente chi potrà pagherà per avere più privacy online.
Per quanto riguarda la polita europea, ci sono molte cose che si potrebbero fare. Ma è necessario che ci sia un ripensamento radicale dell’approccio dell’UE alle questioni tecnologiche a cominciare dall’uso dei dati e dell’intelligenza artificiale (AI). Bisogna uscire dall’idea che i dati generati quotidianamente siano proprietà esclusiva degli operatori delle piattaforme, non dovrebbero appartenere a loro ma ai cittadini che li producono, in forma di common. Per esempio si potrebbero far pagare loro delle tasse e investire quei soldi in start-up o in associazioni di cittadini che studino quei dati per il benessere della collettività, per un loro uso socialmente utile o a fini scientifici. Al momento gli unici che possono usarli sono Google, Facebook, etc. Perché sono gli unici che ci investono sopra, Amazon fa tantissima ricerca, e lo stesso fa in Cina Alibaba, per sviluppare l’AI.
Non ho soluzioni a portata di mano ma, in questo scenario, l’Europa deve trovare il modo di uscire da questa narrazione neoliberista e da questo sonno in cui è caduta da anni, per quanto riguarda i dati e il resto perché altrimenti diventerà una colonia degli USA e della Cina.