Qual è la relazione tra Anarchismo da una parte e Rivoluzione Sociale dall’altra? In effetti, il movimento anarchico reale ha troncato la questione da molto tempo ed, in un certo senso, si può dire che il dibattito «rivoluzione si o no» è un dibattito sfasato o, se preferite, un dibattito per dinosauri ideologici, tra i quali evidentemente mi metto.
Io sostengo che il concetto di rivoluzione è antitetico o incompatibile con il pensiero anarchico, per il fatto stesso che è portatore d’una serie di conseguenze o effetti che sono necessariamente liberticidi.
Non si tratta, anzi tutto il contrario, di mettere in causa il «desiderio di rivoluzione» che costituisce un elemento fondamentale della sensibilità social-emancipatrice e del pensiero utopico o d’ogni esigenza etica.
I libertari e, con loro, milioni di persone sognano più o meno vagamente d’una mutazione sociale che sfocerebbe in una società radicalmente differente da quelle che conosciamo. Questo sogno costituisce, in effetti, un elemento dell’immaginario sociale dal tempo, non così lontano, in cui si scoprì che le forme sociali sono forme socio-storiche, cioè forme relative, e che è dunque concepibile agire su di esse per modificarle volontariamente. Desiderare attivamente di vivere in un «altrove», in rapporto al social-istituito che conosciamo, costituisce certamente l’imperativo d’ogni etica.
Non è dunque il desiderio di rivoluzione ad essere messo in causa. Ben al contrario, il desiderio di rivoluzione costituisce un elemento fondamentale di tutto il pensiero critico e fa parte a pieno titolo dell’indispensabile utopia libertaria. Ciò che risulta invece seriamente problematico è il progetto di rivoluzione. Vale a dire l’elaborazione politica o strategica del desiderio di rivoluzione, la sua traduzione concreta a livello d’una concezione e d’una pratica sociopolitica che si vogliono libertarie. Ciò che diventa seriamente problematico è la costituzione del desiderio di rivoluzione in un progetto razionale, elaborato, articolato, che serva da motore all’efficacia dell’azione individuale e collettiva, poiché il desiderio di rivoluzione diviene allora, necessariamente, un’impresa totalitaria ed uno strumento di dominazione. Perché il progetto rivoluzionario si contrappone a quello che potrebbe essere considerato come l’essenza stessa del pensiero anarchico? Non si tratta di una domanda legata all’aspetto insurrezionale o meno della rivoluzione.
In effetti, il ricorso alla violenza costituisce spesso la sola via d’uscita valida di fronte a certe situazioni ed io non sono di quelli che vedono nell’uso della violenza una «tara» che snaturi irremissibilmente ogni azione dalle mire emancipatrici. È vero che i mezzi o gli strumenti utilizzati non sono mai neutri e che l’uso della violenza implica necessariamente degli effetti specifici, ma tutti i mezzi che possiamo utilizzare sono caricati di effetti secondari non desiderati e non controllati. L’anatema lanciato contro la violenza dei dominati non pare giustificabile, a meno che non si miri ad un’eventuale «strategia della violenza», nel qual caso sarei d’accordo anch’io.
Al di là dell’aspetto insurrezionale o meno della rivoluzione, quello che viene messo in causa tocca una questione fondamentale, legata alla logica stessa del concetto di rivoluzione. Un’analisi storica dell’emergere e dello svilupparsi del concetto di rivoluzione sociale ci mostrerebbe a qual punto questo concetto è stato segnato dal modello scientifico proprio alla meccanica classica e a qual punto è tributario dell’ideologia scientista, determinista e dominatrice che impregna il modello scientifico galileo-newtoniano. Lappo Berti1 ha realizzato quest’analisi in un eccellente articolo apparso nella rivista «Aut-Aut»; non tratterò dunque in maniera dettagliata questo punto e mi accontenterò di segnalare che il concetto di rivoluzione è stato fondamentalmente utile, a livello storico, per i disegni della borghesia e, più in generale, per i disegni di ogni tentativo di conquista del potere politico. Questo aspetto da solo basterebbe a gettare un’ombra di dubbio sulla pretesa pertinenza libertaria del concetto di rivoluzione, ma ciò che importa è di segnalare altri aspetti e per far questo è necessario precisare alcune caratteristiche del concetto di rivoluzione. Una rivoluzione non si riduce certamente ad una semplice trasformazione della società, bisogna specificare almeno 5 elementi supplementari per render conto del concetto di rivoluzione:
1.è una trasformazione relativamente brusca e rapida, senza la quale i termini di «rivoluzione» ed «evoluzione» sarebbero intercambiabili;
2.è una trasformazione radicale, senza la quale si parlerebbe di un semplice riaggiustamento o di «riforma» sociale;
3.è una trasformazione orientata, o finalizzata, poiché i libertari non sono dei «democratici primari», non si soddisfano con la nozione di realizzazione del desiderio maggioritario delle persone ed esigono che la rivoluzione, per essere «autentica», si conformi ai propri criteri.
4.è una trasformazione globale, che tocca tutta la società, senza la quale non si tratterebbe che di una protesi sociale locale;
5.infine, a livello di progetto politico, la rivoluzione diventa necessariamente un obiettivo trascendente. Difatti, gli effetti attribuiti alla sua realizzazione sono sufficientemente importanti perché questo obiettivo, la rivoluzione, si collochi ad un livello qualitativamente diverso dagli altri obiettivi, relegandoli in una situazione di subordinazione gerarchica.
Se analizziamo le diverse conseguenze che derivano dalle cinque caratteristiche enunciate, è facile vedere perché l’idea di rivoluzione diventa incompatibile con l’anarchismo dall’istante in cui essa prende la forma di un progetto politico, cioè di un progetto virtualmente realizzabile e che orienta la pratica social-antagonista dei libertari.
Molto brevemente, segnalo tre di queste ragioni:
1. l’idea di rivoluzione, in quanto obiettivo trascendente, in quanto l’obiettivo sovraordinato, reintroduce necessariamente un elemento teologico nel pensiero libertario. Questo obiettivo supremo rende legittimo il sacrificio del presente al futuro, del tempo concretamente vissuto al tempo puramente ideale, legittima il sacrificio della vita all’idea, per non parlare d’altri sacrifici che si estendono dall’auto-sacrificio militante al sacrificio altrui, passando per il sacrificio (o la messa tra parentesi) dei «principi». Dall’istante in cui vi è un obiettivo trascendente, un fine supremo, un valore collocato nel tempo futuro, tutti i sacrifici sono permessi. Se la rivoluzione può essere compiuta grazie ad una strategia, qualunque essa sia, è chiaro che non ci possiamo dire libertari se non tentiamo di realizzarla – costi quel che costi -. Le migliaia di morti che quotidianamente provoca la società istituita, le innumerevoli sofferenze ed umiliazioni di ogni momento, l’ingiustizia permanente non ci lasciano scelta. Se la rivoluzione è inscritta come possibile conseguenza d’una strategia, niente può giustificare la rinuncia a questa strategia. L’affermazione che «il fine non giustifica i mezzi» perde in questo contesto ogni significato che non sia moralista e pio. Che importano le giustificazioni se il risultato costituisce la fine della barbarie? Si tratta certamente d’un vecchio dibattito, ma coloro che credevano veramente che la rivoluzione potesse essere una conseguenza diretta delle loro azioni avevano ragione di «calpestare» i «buoni sentimenti» dei libertari. Bisogna effettivamente scegliere tra la credenza nel progetto rivoluzionario da una parte e «l’ideologia» libertaria dall’altra. Non si può essere libertari e sviluppare un progetto rivoluzionario, poiché questo nega l’insieme dei valori libertari. Non averlo compreso ha condotto i libertari della prima metà del secolo ad incredibili aporie, scavando un fosso tra la loro pratica e la loro ideologia.
2. L’idea di rivoluzione, in quanto progetto globale e totalizzante, che tocca l’insieme d’una data società, è necessariamente un progetto totalitario perché «annoda» in uno stesso nodo l’insieme delle traiettorie individuali, subordinando il particolare al generale. In effetti la società è un sistema, nel senso forte del termine tutte le sue parti interagiscono le une con le altre e sono interrelate. La società è più della somma delle sue parti ma essa è anche meno della somma delle sue parti, giacché per il semplice fatto d’essere costretta in un sistema ogni parte subisce delle costrizioni che limitano l’espressione delle sue proprietà. Il «progetto rivoluzionario» comporta anche un «progetto di società». In effetti, non si tratta d’un semplice progetto negativo mirante a distruggere e basta il sociale istituito, ma comporta la proposta d’un sistema sociale alternativo. Di conseguenza, il progetto rivoluzionario si presenta come un progetto che toccherà, che lo voglia o no, l’esistenza di ognuna delle parti che compongono la società, che queste parti vogliano o no adattarsi al progetto di società concepito dai «rivoluzionari». Un progetto di società può essere concepito in moda da massimizzare la libertà e l’autonomia di ciascun elemento sociale ma ciascun elemento deve essere compatibile con l’insieme, e questo insieme assicura appunto la compatibilità esercitando su questo le operazioni materiali ed ideologiche necessarie. Il modello di società veicolato da un progetto rivoluzionario è dunque un modello per tutti. Si può dubitare che il fine dell’azione libertaria sia di promuovere un sistema sociale, qualunque esso sia, nella misura in cui, per definizione, questo sistema sarà localmente costrittivo.
3. Infine, l’idea di rivoluzione implica la credenza nel determinismo sociale, cioè la credenza che la società è una specie di macchina retta da leggi, sulla quale si possono applicare alcune azioni causali per produrre degli effetti controllati e prevedibili. Senza questa credenza il «progetto rivoluzionario» non ha senso perché una strategia si può elaborare solo sulla base d’un legame causale tra le operazioni realizzate e le conseguenze prodotte, o quantomeno sulla base d’una credenza in questo carattere causale. Il che porta ad ignorare semplicemente che la società è un sistema autoorganizzante e dunque fortemente imprevedibile nelle sue reazioni e nel suo funzionamento. E questo porta anche (ma è un’altra questione), ad accettare un modello di conoscenza del sociale basato sul controllo dell’oggetto da conoscere, cioè basato in definitiva sul controllo sociale.
In definitiva, il pensiero libertario non può ospitare nel suo seno il concetto di rivoluzione e deve anzi abbandonare l’uso stesso del termine «rivoluzione». L’attività pratica dei libertari può, eventualmente, scatenare o provocare una rivoluzione, ma mai come risultato di un effetto ricercato, mai come esito d’un progetto razionale e coerente. Il «desiderio di rivoluzione» e l’«utopia» sottese dalle pratiche libertarie costituiscono dei potenti elementi di cambiamento sociale. Possono forzare il sistema sociale a ristrutturarsi senza che si sappia molto bene come e perché. Per fortuna, né i libertari, né alcun altro dominano sufficientemente i meccanismi e le regole sociali per poterli controllare e dirigerne volontariamente il corso. Per finire, vorrei ricordare che l’anarchismo è un sistema in divenire, un sistema essenzialmente evolutivo, che alle sue origini era pieno di insufficienze e tracce autoritarie ed ancor oggi continua ad averne.
In una prospettiva di anarchismo critico, si tratta, per così dire, di migliorare l’anarchismo giorno dopo giorno liberandolo progressivamente dei suoi contenuti autoritari. Oggi, il progresso del pensiero anarchico passa attraverso tre condizioni essenziali:
1. Abbandonare esplicitamente il concetto di rivoluzione, procedere alla sua critica e tirare tutte le conseguenze di questo abbandono.
2. Riconoscere l’impossibilità d’una società privata delle relazioni di potere e tirarne anche qui le conseguenze.
3. Riconoscere che non tutte le finalità positive sono necessariamente compatibili tra loro2 e tirarne le conclusioni.
Se quello che ho detto è vero, è certamente un vero peccato perché era piacevole sognare una società senza potere, credere che tutti i valori che ci sembrano positivi potessero organizzarsi in una sorta di bouquet armonioso ed era effettivamente esaltante vivere lottando per la rivoluzione. Gli anarchici sono stati tra i primi a proclamare che l’uomo doveva abituarsi a vivere senza Dio, anche se questo era frustrante e difficile; oggi gli anarchici, e gli uomini in generale, devono apprendere a vivere abbandonando la credenza nella rivoluzione.
Tomas Ibanez – Coordinatore del Dipartimento di Psicologia Sociale all’Università Indipendente di Barcellona. Figlio di esuli spagnoli a Parigi, è stato tra i fondatori del Movimento XXII Marzo ed è stato espulso dalla Francia per la sua partecipazione al Maggio ’68; autore di Poder y Libertad (Barcellona, 1983).
Traduzione di Rossella Di Leo
1 BERTI L., Rivoluzione o…? «Aut-Aut», gennaio 1980, Milano.
2 PAGÉS R., La libertà, la guerra, la servitù, «Volontà», n. 4/1984